non-fiction
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Le strutture della narrativa ipertestuale
Nota critica: Walter J. Ong – Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola
Augmented Learning: An E-Learning Environment In Augmented Reality For Older Adults
Mapping
Gli ipertesti e la comunicazione multimediale
fiction
La stagione del raccolto
Published in: AAVV, Giallo Wave 2: Il principio del giallo. Ed. F. Batini-S. Giusti. Milano: Noreply, 2005 |
Certo, non era stata lei ad ammazzarlo. Ma si accorse che aveva accettato subito quella morte, senza dolore, senza nessun rimpianto. Con naturalezza, appunto. Per un istante fu persino colta da un senso di vertigine all’idea che il fratello non ci fosse più. Rise tra sé a labbra strette, ma poi subito sentì la colpa sfiorarla, e si pentì di quel gesto d’abbandono. Come poteva riuscirle di ridere dopo quanto era successo? Non l’amava, questo è sicuro, ma in fondo era sempre suo fratello, no? E d’altra parte che avrebbe potuto fare? Ogni cosa era andata storta fin dall’inizio: lei era arrivata in ritardo all’appuntamento, e Gianni era già morto quando era entrata nel parco. Morto e con un coltello infilato in gola. È per quello che era fuggita. Era l’unica cosa da fare. Non si era soffermata troppo a guardare il corpo. Era lì per terra, immobile. L’aveva toccato, ma per un istante soltanto. Era freddo. Pieno di sangue. Aveva impugnato il coltello cercando di sfilarlo, ma ci aveva subito rinunciato. È morto, aveva pensato. Pensò che si sarebbe freddato ancor di più. Così era scappata. E adesso invece era in casa e al sicuro. Ma suo fratello era ancora morto. E qualcuno lo aveva ammazzato. E lei non poteva dirlo a nessuno. Non poteva essere lei a trovarlo per prima, perché altrimenti l’avrebbero subito sospettata. Tutti sapevano delle liti tra loro, tutti ricordavano che lei gliel’aveva urlato che l’avrebbe ammazzato prima o poi. Non diceva sul serio, naturalmente, ma ora quelle parole potevano usarle contro di lei. Così ora era costretta ad aspettare che fossero altri a scoprirlo. Cos’altro poteva fare? Un senso vago di disagio scalzò la sicurezza con cui era entrata in casa. Dormire, si disse. Devo dormire. E si preparò per dormire. Si lavò le mani per rimuovere il sangue secco rimasto tra le dita. Non pensare, si disse mentre acqua rossa di sangue spariva nel lavandino. Si lavò i denti guardandosi allo specchio. Nello specchio incontrò occhi cupi che avevano visto la morte. Non pensare. Non serve a nulla. Non pensare. Stesa nel letto al buio chiuse gli occhi e finse di dormire, ma non ci riusciva perché in testa ritornavano le immagini del fratello: steso, la pancia all’aria, la gola squarciata. Col corpo che si freddava con rapidità, il coltello piantato in gola, la camicia sporca di sangue, un’ombra scura dietro a un albero, lei che afferra il manico del coltello, le sue mani imbrattate di sangue, il silenzio perfetto, la luce della luna, il sentiero tra l’erba, il cancello spalancato da cui fuggire, il suono delle sue scarpe mentre correva sul marciapiede. Lei che correva… Bloccò le visioni. Accese la luce. Qualcosa non andava. Seduta nel letto si costrinse a ritornare con la mente ai momenti del ritrovamento: l’appuntamento, il ritardo, l’ingresso nel parco, pochi passi lenti verso l’interno, alberi fitti e siepi attorno. E il corpo steso a terra, il coltello, l’ombra dietro l’albero, il sangue, il cancello, la corsa, la luna. Il corpo, il coltello. Il coltello! e l’ombra dietro l’albero! Ecco cosa non andava! Aveva toccato il coltello infilato nella gola del fratello. Ora c’erano le sue impronte sul manico. L’avrebbero accusata di omicidio. Tutti sapevano che litigavano. E poi, c’era l’altra cosa: l’ombra. Mentre costruiva contro se stessa prove di un delitto che non aveva commesso qualcuno la stava a guardare. Un’ombra, appunto. Era l’assassino? L’aveva vista? Riconosciuta? Il coltello. L’ombra. Capì che per salvarsi doveva tornare dal fratello, eliminare quelle impronte dal manico. Ma non passò subito all’azione; l’idea dell’ombra in agguato la spaventava, e quella paura voleva trattenerla in casa; ma anche il pensiero di un’accusa d’omicidio l’atterriva, e quest’altra forma di paura insisteva in lei perché tornasse verso il fratello assassinato. Esitò per poco. Immaginò che l’ombra poteva affrontarla, forse, ma un’accusa per il delitto no. Allora si alzò rapida dal letto e subito prese a vestirsi. Due minuti dopo era di corsa giù per le scale. Da un cassetto in cucina si prese un coltello e l’infilò di fianco nella cintura come fosse una spada. Poi uscì rapida. Fuori era freddo. Camminò nella notte, e la paura le stava addosso come una scimmia avvinghiata alla schiena. Arrivò nel parco e superò il cancello guardinga, avanzando lenta, preoccupata per un attacco improvviso dell’ombra. Per proteggersi si affidava al coltello, che stringeva in mano con goffaggine. Ma non vide l’ombra, né qualcun altro che la stesse a guardare. E neppure il corpo del fratello. C’era la siepe, il sentiero di ghiaia, un’aiuola con fiori esuberanti. Ma del cadavere nessuna traccia, se non uno schiacciamento leggero dell’erba che solo per lei avrebbe potuto avere un significato. Dimenticò il pericolo e rimase a fissare l’ovale d’erba per cercarci indizi e scoprire dov’era il corpo. La luce della luna l’aiutava; sì chinò, trovò tracce di sangue, ma a cosa poteva servirle del sangue senza un corpo che sanguinava? Tornò a casa perplessa. È morto veramente? si domando. E chi l’ha spostato? Certo, in fondo era un bene che fosse sparito. Se trovano il corpo, pensò, e il coltello, avranno le prove contro di me. Se trovano il corpo non avrò scampo …. Si sentiva già condannata. In bagno si affido all’acqua per calmarsi. Entrò nella vasca ricolma, ma rimase immersa per poco, perché sul soffitto continuava ad apparirle l’immagine del fratello morto. Di nuovo s’infilò a letto, ora con l’angoscia che dallo stomaco le saliva fino in gola, come catrame; era certa che non sarebbe riuscita a chiudere occhio. Invece si addormentò subito e dormì un sonno lungo. Non sognò neppure, o almeno non ricordo di aver sognato. Solo al mattino, con la luce del sole che filtrava tra le tende, al sicuro dentro casa, l’immagine del fratello a terra col coltello piantato in gola le parve un sogno. Scese le scale verso il soggiorno e già gli altri fratelli erano a colazione e si stupì di non vedere Gianni tra loro. «Dov’è Gianni?» domando. Ma nessuno dei fratelli l’aveva visto. Allora Alice capì che il sogno della notte era realtà. Gianni era morto. Alice non fece molto per scampare al suo destino di colpevole. Un tentativo di cancellare le impronte l’aveva fatto. Inutilmente. Altro non poteva, o non sapeva. Così restò in casa ad aspettare. Telefonò al ristorante dove lavorava per avvertire che non sarebbe andata. E così trascorse ore in poltrona, stordita, in attesa di qualcuno che venisse ad avvertirla del ritrovamento del corpo. Poi ci sarebbe voluto ben poco a rilevare le impronte e risalire a lei. Lo sapeva bene: aveva poche ore di libertà. Dopo un po' cercò sollievo nelle abitudini. Pulì la cucina, com’era solita fare a metà mattina, anche se era la cucina del ristorante che puliva, in genere. E a mezzogiorno prese a cucinare, come faceva sempre a quell’ora. In una padella preparò il soffritto immergendo nel burro la cipolla a fettine e gli asparagi in pezzi, e poi ci buttò un pugno di riso nero, e col mestolo aggiunse il brodo e mescolò il riso perché il brodo si distribuisse bene. Mangiò da sola, assaporando ogni boccone. Non le capitava spesso di poter rimanere seduta a mangiare all’ora di pranzo. Gustò il cibo con lentezza. Non pensare, si disse mentre masticava. Più tardi si dedicò alla spesa; anche quella un’abitudine consolidata. Devo farla comunque la spesa? si domando dubbiosa, anche se Gianni è morto? Ma si rese conto che era la sola a sapere di quella morte, per ora, e che quindi doveva comportarsi come se suo fratello fosse ancora vivo. Così uscì e si incamminò verso il centro, fingendo una tranquillità che non aveva. Dal fruttivendolo comprò un chilo di zucchine, scalogni, carote e pomodori. Nel supermercato a cento metri da casa prese scamorza affettata e bresaola, dallo scaffale dei vini selezionò un Alezio Rosato per accompagnare gli involtini che voleva preparare per cena. Poi passò in macelleria. «Buon pomeriggio!» la salutò il macellaio. Le sorrise con grande sfoggio di denti perché la conosceva bene, perché la vedeva spesso entrare a comprare carne fresca per il ristorante. Una delle sue migliori clienti! Così il macellaio si stupì sentendola chiedere solo sei etti di fusello tagliato in fette sottili per gli involtini e cinque etti di carne macinata. Nient’altro. Ben poco rispetto al filetto per le bistecche, al manzo per i bolliti e gli umidi e lo spezzatino, e le costine di maiale e d’agnello, e i coniglie e il pollame. Tornò dal retro con la carne già tagliata in fette. «Una carne speciale per lei oggi» le disse mentre la incartava. E le sorrise ancora, e molto. «Però è nulla rispetto al solito. Il ristorante è chiuso?» «Oggi non lavoro» rispose Alice. Gli ricambiò il sorriso. «Cucino solo per me e per i miei fratelli» disse mentre afferrava il sacchetto con la carne e si girava verso la cassa. Tornò in casa, sistemò la spesa sul tavolo. Dispose le fettine sul tagliere. Una volta battute bene, le coprì con fette di scamorza e aggiunse la bresaola. Legò gli involtini con lo spago e li passò nella farina. Immaginò con chiarezza la pelle del fratello, che in quel momento doveva essere bianca allo stesso modo. Non ci pensare, si disse. In padella preparò un soffritto di carote, scalogno tritato e pomodoro a cubetti, poi mise gli involtini a rosolare. Aggiunse foglie di timo e menta fresca. Ogni tanto girava gli involtini, li bagnava col vino. Mentre la carne cuoceva preparò anche il ripieno per le zucchine. A cena i fratelli non si preoccuparono dell’assenza di Gianni. Cinque persone, o sei, attorno a un tavolo, la differenza non poi è così evidente. Invece si accorsero della differenza nel cibo. Era raro che Alice fosse lì a cucinare per loro. Erano abituati a pizze riscaldate, o verdure che invecchiavano dentro a buste di plastica, o a carni congelate riportate in vita dal microonde. Non certo a quella carne tenera ripiena, col retrogusto vago di vino evaporato durante la cottura. Attorno alla tavola erano chiassosi, ridevano forte come sempre. Divorarono gli involtini come un branco di animali d’inverno. Anche Alice si sorprese a mangiare con piacere. La carne dolce le evocò in bocca il sapore del mirtillo. Ho esagerato col timo? si domando. Ma già conosceva la risposta. Neppure al ristorante avrebbero avuto nulla da obiettare. Era un piatto perfetto. Le zucchine ripiene fecero la stessa fine degli involtini: svanirono in fretta dentro a bocche insaziabili. Un giorno passò, poi due e tre, ma di Gianni non c’era più traccia. Alice viveva come davanti a una finestra: in attesa di veder scorrere oltre i vetri uomini pronti ad annunciarle il ritrovamento del corpo e costruire la sua colpevolezza. Ma i giorni diventarono sette, e otto, poi dieci e nessuno transitò davanti a quella finestra inventata, e a un certo punto Alice si scosse e tornò alla sua vita ordinaria: il ristorante, la cucina, i clienti, il sesso furtivo in macchina con l’uomo che frequentava da poco e che presto avrebbe lasciato. Un po' si stupì che nessuno dei fratelli notasse l’assenza di Gianni, ma non troppo. In fondo la loro casa era un territorio di passaggio. C’erano troppi uomini in quella casa, e troppe donne che scivolavano per le mani di quegli uomini. Non era raro che qualcuno dei fratelli sparisse, troppo preso a infilarsi nel letto di donne conosciute molto in fretta. Ritornava sconfitto dopo un giorno, o dopo una settimana. O magari un mese, quando andava bene. Chissà. Di sicuro pensarono tutti che con Gianni le cose fossero andate così: sparito dietro a una donna, dentro. Certo, Alice si continuava a fare domande: dov’è finito? si chiedeva. E anche: chi l’ha fatto sparire? Ma soprattutto: perché mi aveva dato appuntamento nel parco di notte? Però non aveva risposte, e non sapeva neppure come trovarle. Spesso l’ansia la assaliva a ondate lente, come una predatrice scaltra in attesa: si avvicinava a lei, poi si ritraeva. Sarebbe mai finita? Anche questo si chiedeva. Colta da un senso di colpa vago quanto inutile un giorno, era il dodicesimo dopo la morte di Gianni, Alice si ritrovò nei pressi del parco. La notte prima una tempesta di neve aveva riempito l’aria. Ora la neve spalata si ammucchiava ai lati delle strade in lunghe strisce sporche. Dal fiume grigio saliva il vento a raffiche. Era freddo quando attraversò il cancello. Non avrebbe potuto giustificare la sua presenza in quel luogo, soprattutto a se stessa. Pure entrò e ando sicura verso il punto che conosceva bene. Trovò solo neve e chiazze d’erba gelata, ma per minuti restò comunque a fissare il punto dove una volta c’era il corpo. Non serve a niente, pensò. No, non è vero, pensò subito dopo. Serve a liberarmi dal suo fantasma. Fu distratta da un movimento laterale che colse con la coda dell’occhio. L’ombra, si disse. Si voltò e scorse un’ombra dietro a una pianta, e capì che era stata seguita. Provò paura, e freddo. L’ombra si mosse tra rami e cespugli. Alice la seguì con gli occhi, si accorse che era una figura bassa, doveva essere un nano, o un bambino. Non devi temerlo, si disse allora. La vide allontanarsi verso l’uscita e decise di andarle dietro. Rallentava il passo quando la figura rallentava, poi si affrettava se la vedeva correre. Si nascose dentro ai negozi, fermandosi dietro alle porte a vetro. La figura procedeva decisa, ma a tratti si voltava per cercare Alice con gli occhi. Camminò fino a raggiungere zone familiari: il quartiere di Alice, le strade che lei frequentava ogni giorno. Sparì oltre la porta della macelleria, esitando solo un istante prima di entrare. In breve anche Alice era davanti a quella porta. Era presto, le due e trentotto, e a quell’ora c’era poca gente in giro. Che fare? Cosa aspettarsi? si chiese. Cauta spinse la porta. Era aperta. Entrò. Fuori era freddo, dentro molto caldo. Con gli occhi cercò il macellaio, ma vide solo porzioni misurate di animali squartati allineate dentro ai banconi, coi prezzi in vista nei cartellini bianchi. Quei corpi morti le ricordarono il fratello, morto anche lui. Non pensarci, si disse. Cercò il suo inseguitore, certa che fosse lì vicino. Vide l’ingresso per il retro della macelleria. Esitò prima di muoversi, ma non troppo. In quattro passi era già davanti alla porta, l’aprì, superò la soglia. Dentro era buio. «Forse conosce già mio figlio» disse quasi subito una voce. Alice la riconobbe: era la voce del macellaio. Poi si accese una luce forte, e a quel punto lei non ebbe più dubbi: era il macellaio. Attorno c’erano carcasse di animali appesi ai ganci: quarti di bue, maiali, conigli e capretti spellati. L’uomo era in piedi vicino al muro, con una mano sull’interruttore della luce. Indossava l’uniforme da lavoro, quel camice bianco sporco di sangue che crea somiglianze tra i macellai e i chirurghi. Il sorriso era il suo solito: una gran quantità di denti e guance contratte. Ma gli occhi no, non erano i soliti. Dentro Alice ci trovò un riflesso di luce nera. Al suo fianco c’era un ragazzino, di sicuro la figura che lei aveva inseguito per le strade della città. «Mio figlio» disse di nuovo il macellaio, guardando Alice e sfiorando il ragazzo con la mano. «Un ragazzo obbediente.» Gli appoggiò le dita sulla spalla e lui si mosse sentendosi al centro dell’attenzione, si rivolse silenzioso verso il padre lanciandogli un sorriso vago. «Perché mi seguiva?» domando Alice all’uomo indicando il figlio. «Per attirarla da me» le disse il macellaio. «Perché io ho bisogno di lei.» Esitò un poco prima di pronunciare la frase successiva: «Tu…» le disse, «tuo fratello è morto a causa tua. L’ho dovuto ammazzare. Dovevo scegliere tra te e lui.» Alice non capiva, scosse la testa. «La carne…» le disse il macellaio, commentando le parole con un gesto circolare del braccio. Indicò le bestie dimezzate e appese rovesciate. «Non tutta è carne di animali.» Si avvicinò a Alice, la afferrò per mano, con dolcezza la trascinò verso l’angolo più scuro della stanza, verso una delle carcasse congelate. «Questo è un uomo» le disse. Alice guardo il corpo freddo che pendeva dal gancio, guardo la testa piena di capelli, e le estremità rigide che toccavano il pavimento: non erano zampe. Alice preoccupata si domando: perché? Da quanto tempo lo faceva? E suo fratello che c’entrava? Il macellaio sembrò leggerle le domande negli occhi. «Nutrire con la carne è il mestiere dei macellai comuni. Nutrire con carne umana è mestiere di pochi. È il mio mestiere. C’è gente che paga per averla. Paga molto bene. E tuo fratello mi aiutava a procurarmi carne. La carne umana ci legava con una legge di sangue. In vita e in morte.» «Ma qualcosa è andato storto» continuò il macellaio. «Voleva rinchiuderti qui. Aveva deciso di usare te come carne in vendita. Credo ti odiasse.» Alice ripensò alle liti con Gianni, alle troppe parole dure tra loro. A quando le mani di lui avevano cercato di scavalcare la stoffa della gonna per raggiungere gli slip. Allo squarcio che lei gli aveva aperto in faccia con l’anello per evitare che continuasse. Si odiavano, certo. Ma non fino a quel punto, non lei almeno. E lui invece… «L’ho ammazzato senza esitazione» disse il macellaio. «Tu sei una delle mie clienti migliori. Non potevo perderti.» Le sorrise con affetto. «Gli ho infilato la lama in gola e poi giù, dentro fino al cuore, come a un maiale. È morto con rapidità. L’ho già venduto tutto. Anche a te, quando sei venuta per gli involtini. Spero ti sia piaciuta quella carne.» Alice ricordo il sapore dolce degli involtini ammorbidito dal vino. Rivide gli altri fratelli mentre si infilavano la carne in bocca e masticavano rapaci. Ci sono modi più inutili di morire, pensò. Nessuno potrà più accusarmi, pensò con soddisfazione. «Ho bisogno di qualcuno che sostituisca tuo fratello e mi aiuti a recuperare la carne» le disse il macellaio. «Posso scegliere te, o farti sparire. Preferirei tenerti in vita, ma non farei nessuna fatica ad ammazzarti. Adesso. Subito. Domattina saresti già carne prelibata e costosa, finiresti tra le lingue di palati raffinati.» Terminò di parlare, poi aspettò in silenzio la reazione di Alice. Alice non cercò di fuggire, e anche l’attacco lo escluse. Si fece i suoi conti. Molte questioni tra loro non erano affatto chiarite, ma di sicuro col tempo le spiegazioni sarebbero arrivate. Però di una cosa era certa: in quel momento non aveva scelta. Poteva sostituirsi al fratello o morire. Si impose di vedere quell’imprevisto come un dono, una possibilità che la vita le offriva. Fece un cenno del capo rivolto al macellaio. Quel gesto fu come una firma nel contratto invisibile stipulato tra loro: il macellaio la teneva in vita, in cambio lei avrebbe procurato carne. Il macellaio sorrise, chiamò il figlio che era rimasto indietro nella stanza. Gli scosse i capelli con la mano. «Lavorerà per noi» disse al ragazzo. Lui piegò la testa in alto, guardo al padre come a dire: ne ero certo. I barboni sono creature invisibili, le spiegò il macellaio quella sera. Se uno di loro muore c’è più spazio per gli altri, e più cibo. Nessuno protesterà. Per cominciare, è quello il tuo terreno di caccia. Le spiegò ancora che il fratello andava in stazione a catturarli. Era più facile, lì attorno: ce n’erano tanti. Li aspettava nascosto, attendeva che uno si allontanasse dal gruppo. Poi lo avvicinava, col coltello lo apriva rapidamente senza neanche parlargli. Lo trascinava dentro al furgone che era ancora vivo. Al resto ci pensava il macellaio. «Tuo fratello ci sapeva fare» aggiunse il macellaio. «A modo suo…» Un metodo rude, pensò invece Alice mentre ascoltava. Rude come lui, si disse ripensando a Gianni, al suo corpo ormai già trasformato in escrementi. Era un uomo senza gusto, concluse. Si scrutò dentro in cerca di rimpianti, di dolore, di un senso di perdita per quella morte. Non ne aveva e non si stupì di non averne. Lui era morto. Lei era viva. È così che va il mondo. Tre giorni dopo Alice era in stazione. Era sera, era freddo, era tardi. Non fece fatica a scovare i barboni. Si avvicinò a un gruppetto di loro ammucchiati a bere e fumare e appoggiò per terra le scatole di cartone che teneva in mano. Da una tirò fuori un contenitore di plastica. Il profumo forte del cibo scatenò l’attenzione dei barboni. Un uomo si avvicinò. Quando Alice fece il gesto di porgergli il cibo quell’uomo sorrise distratto, troppo concentrato sull’idea del mangiare per preoccuparsi di chi gli faceva l’offerta, o del perché. C’era cibo, e questo bastava. Afferrò il contenitore e cominciò a infilarsi in bocca le tartine al salmone e al caviale che Alice aveva sottratto al ristorante. Era sporco e si sporcò di più mangiando. Pochi secondi dopo anche gli altri gli si ammassarono dietro, rumorosi aprirono le altre scatole distruggendo i coperchi e lanciandosi sullo sformato di sedano al prosciutto. Erano affamati tutti, e fecero sparire rapidi anche le fette di arrosto, e succhiarono il sugo bevendolo direttamente dal contenitore, passandoselo l’un l’altro come fosse una coppa di vino. Non hanno neppure sentito il sapore, pensò Alice. Peccato. Quell’arrosto al brandy e pompelmo era una sua specialità. Al ristorante ci venivano apposta per mangiarlo. Ma potrebbe essere il loro ultimo pasto si disse. Si meritano un buon pasto. Sorrise. L’ultima scatola se l’era tenuta stretta tra le gambe e nessuno c’era arrivato ancora a conquistarla. La sollevò da terra e l’aprì. «Tu…» disse, indicando col dito l’uomo che al suo arrivo si era lanciato sul cibo. Quel tu l’avrebbe pronunciato ancora. Ma questa era la prima volta: un momento importante; tracciava una linea di confine. Da quel momento in poi la sua vita avrebbe avuto una svolta. In meglio, o in peggio, questo non poteva dirlo, ma senz’altro sarebbe stata diversa. «Tu…» disse, «vuoi sapere cosa c’è qua dentro?» L’uomo le si parò davanti, ormai certo di essere privilegiato sugli altri. Aveva occhi verdi e molto grandi. Ancora da mangiare, pensò. «Vieni con me» gli disse Alice. Schiuse le labbra mostrandogli i denti e lo trascinò lontano dagli altri. Dal fiume saliva un vento freddo che congelava ogni movimento. Com’è radioso questo sorriso, di notte, pensò l’uomo. E sorrise a sua volta. Poi prese a seguirla come un cane. |