Dolori nelle prime ore della notte

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Dolori nelle prime ore della notte

Published in: Writers Magazine Italia 0, (Dec. 2004). Milano: Delos Books.11-13.

Nessuno avrebbe saputo raccontare com’erano cominciati questi nostri incontri, ma in un modo o nell’altro eravamo finiti tutti lì, a guardare le macerie nere, le ceneri, i fuochi che nella notte sostituivano le luci elettriche. A guardarci in faccia, malandati e sporchi. Che altro potevamo fare oltre a tentare di sopravvivere?
Quella sera eravamo riuniti in cerchio attorno alle fiamme, come al solito, a scaldarci e a tirarci addosso stronzate, in cerca di protezione attraverso le parole, in cerca di stordimento con roba forte. Erano le prime ore della notte, noi ci facevamo con ciò che eravamo riusciti a recuperare nei supermercati; per allungare le dosi mescolavamo alcol etilico e vino rosso scolato dalle buste di cartone. Certo che faceva schifo quell’intruglio, e ci intossicavamo con quello, ma chi se ne fregava a quel punto, ti si arrampicava direttamente nel cervello, come una bestia viscida, si strusciava addosso, poi il bruciore e un’esplosione, e si partiva. Si vedevano luci, cose, i ricordi tornavano. Erano schegge violente e confortevoli.
Cos’altro ci restava se non l’illusione di poter annullare il mondo per un po', per un po' stordirci e scordare il presente?
E così quella sera eravamo in cerchio attorno alle fiamme, come sempre facevamo nelle prime ore della notte, e si fece avanti questo donnone che di certo non avevamo mai visto prima. Apparve d’improvviso, senza far rumore di passi, proprio come succede con gli spettri. Ma degli spettri aveva ben poco; era possente, alta, con due grandi tette che le riempivano il petto e sfondavano il buio. S’infilò tra noi. Non salutò, non disse nulla. Solo si fece avanti fino ad arrivare in mezzo al cerchio di corpi, e si fermò vicina al fuoco per scaldarsi, tendendo le mani verso la luce mobile. Lo sguardo era fisso tra le lingue di fuoco.
Subito dopo se ne venne fuori lo Smilzo, ci spuntò davanti senza che quasi ci accorgessimo di lui. L’aveva seguita camminandole alle spalle, come un misero animale domestico che d’improvviso è lasciato libero e non sa come muoversi, né come nascondersi. Si mimetizzava dietro di lei, che era larga il doppio di lui. È per quello che non l’avevamo visto subito.
«Lei è Mina» ci disse lo Smilzo. Si rivolgeva a tutti noi, e a nessuno in particolare. «Una grande cantante, prima della catastrofe.»
Mina. Una cantante. Li guardammo increduli.
Mi venne da pensare a un ippopotamo e a un serpente. Erano una coppia assolutamente improbabile, la bella e la bestia, la cantante e il cretino.
Che ci faceva Mina la cantante in questo posto merdoso? E con lo Smilzo, poi? Cosa mai li poteva portare assieme attorno al nostro fuoco?
Che volevano da noi?
Però continuammo a guardarli, anzi, no, ci concentrammo solo su di lei, perché dello Smilzo ce ne fregavamo, lui era semplicemente lo Smilzo, che altro si poteva dire di lui? Invece lei la fissavamo curiosi, attenti mentre ora ci sfiorava tutti col suo sguardo per niente intimorito. Addosso aveva questo vestito nero e lungo, ben attillato, così che la stoffa lucida rivelava tutti i rigonfiamenti del suo corpo molle. Solo il petto era mezzo fuori, poverino, grosso com’era non è che trovasse molta stoffa per nascondersi.
«Sa cantare» aggiunse lo Smilzo con una voce appassita. Con quella frase pareva che volesse giustificarsi per averla portata. Ci si stava lavorando, come al solito. O almeno ci provava. «E canta bene anche. Era la prima donna nel coro di Varsavia...»
«È una grande cantante lirica...» disse alla fine. «Davvero...» E le parole gli si spensero nella notte.
Noi ce ne restammo in silenzio ad aspettare che succedesse qualcosa. Va bene, avevamo la cantante. E quindi? Che dovevamo farci con la grande cantante?
Intanto tirai una buona sorsata per scaldarmi. Quella roba andava giù bene, dannatamente bene. Bruciava tutto dentro. Cominciai a lacrimare. Alzando la testa vidi le stelle. Costellazioni lontane e indifferenti.
Fuori era il fuoco a bruciare. Piccole schegge luminose partivano via dalle fiamme e ruotavano nell’aria come farfalle, in alto; poi si spegnevano e scendevano fredde.
Dall’ombra qualcuno borbottò: «Se sa cantare allora falla cantare, no?» Questo disse la voce che proveniva dal buio. Erano parole raschianti, impastate d’alcol e di fumo e di fastidio. Non vidi chi parlava. Ma chiunque fosse aveva ragione: se quella faceva la cantante, allora cos’altro poteva fare se non cantare?
Anche lo Smilzo sembrò d’accordo. Così le fece un segno, spostando il mento in basso e scuotendo la testa più volte, e indicando noi con un dito puntato, segnando il cerchio di corpi. Era veramente brutto lo Smilzo, e quel gesto che fece lo imbruttì di più. Ma lei non ci prestò attenzione, né si fece pregare, e si preparò subito al canto. Lo capii prima ancora che cominciasse. Lo capii da come mosse le gambe e si assestò i piedi nella polvere. Lo capii da come si protese in avanti, per respirare l’aria calda che saliva dal fuoco: un gesto contenuto, ma eseguito con armonia perfetta.
Si rivolse a noi con gli occhi. Al suo pubblico improvvisato in quel teatro fatto di terra e di macerie di polvere e di fuoco e di corpi. Che fosse una professionista lo capii da come ci sorrise con gli occhi, regalandoci grandi occhiate lunghe, senza abbandonare le nostre pupille per un istante. Era abituata a regalare sguardi.
Poi alzò un braccio sopra alla testa e lo tenne sospeso in aria, come in attesa di un segnale dal cielo. Cinque secondi, non di più. E infine lo riportò più in basso, con la mano a coprirsi il petto, come a volersi tenere stretto tra le dita quel suo seno enorme. Ombre rapide scivolavano su di lei, si spostavano furtive. La catturavano e la lasciavano.
Sorrideva anche, ma presto vidi quel sorriso svanire quando la sua bocca si spalancò, quando cominciò a cantare. Senza musica, senza nessun preavviso. Senza neppure una nota di prova. Piegò la testa verso l’alto, verso il cielo riempito di stelle. Aprì la bocca a formare un ovale nero tra i denti. E subito la sua voce spiccò forte nel silenzio improvviso, fino ad annullare anche il crepitio delle fiamme.

Sole, col pianto ogni sera,
i tuoi begli occhi fai arrossare,
quando ti immergi nello specchio del mare
pronta ti coglie una morte prematura.

Era fottutamente strano che noi fossimo lì davanti a un fuoco tra mucchi di macerie e la puzza di merda attorno, e questa donna tirasse fuori una voce dannata che poteva fare a pezzi i pochi muri rimasti in piedi. Eppure fu così. Davanti a quella voce tremò il terreno, tremarono le macerie, e anche noi tremammo. I nostri cuori erano toccati. Perché quella voce era una lama di luce nella notte. Era un faro, un baratro di luce immensa e dolce che ci avvolse tutti e ci affogò.

Ma risorgi dall’antico splendore,
gloria del tuo mondo ottenebrato
tu come un fiero eroe trionfale
di nuovo al mattino ti ridesti!

Ah, come potrei lamentarmi,
come, cuore mio, vederti tanto greve,
se il sole perfino deve disperare,
se persino il sole deve tramontare?

Cantò. Continuando con le strofe di quel brano che nessuno di noi conosceva. Nessuno.
Non c’era musica ad accompagnarla, ma nessuno protestò. Nessuno se ne accorse.

E se morte genera solo vita,
i dolori danno solo gioie:
o come sono grato alla natura
che di tali pene mi diede l’affanno.

Cantò per un tempo breve, che pure mi parve senza fine. Quattro strofe, e noi eravamo lì immobili ad ascoltarla, ignoranti e muti come uno stupido branco di pesci. Cantò modulando la voce in un modo che non avrei creduto possibile.
Anche la notte si piegò davanti a questa voce. Si alzò tra noi una brezza leggera, spazzò ciuffi di polvere, la sparse tra noi come per dispetto, poi di colpo si arrestò.
Mina era una divinità atterrata per noi da un pianeta alieno e lontanissimo. Era venuta per riempirci l’anima di dolore, per ricordarci che prima c’erano state cose belle come lei, e che adesso invece lei poteva solo esibirsi così, per caso, cantando in un teatro invisibile per un branco di straccioni pidocchiosi che si facevano di vino cattivo, con l’odore di merda intorno e quattro cani randagi che si mordevano le pulci. Cantò con quella voce che strappava le lacrime anche ai muri. Cantò, e le lacrime che versai non erano per il vino cattivo, questa volta.
E poi smise di cantare. E poi se ne ando. Così, senza dire più niente; così come era arrivata, quella figlia di puttana! Un attimo prima era in mezzo a noi, la sua voce era tra noi; poi d’improvviso si voltò e si spostò lontana dal fuoco.
Sparì come un frammento di legno bruciato che si fredda e si sbriciola per terra. Se ne ando portandosi dietro le sue grasse chiappe e il suo petto infinito. E sparì nel buio, nella polvere, nella notte, come uno spettro. E forse era uno spettro davvero.
Fu solo a quel punto che ci svegliammo tutti assieme, come da un sogno lontano e dolce. Aveva appena smesso di cantare e già quella voce era diventata nostalgia.
Anche lo Smilzo approfittò di quel momento per svignarsela. Attardato la seguì nell’ombra, con lo stesso passo che aveva tenuto arrivando: furtivo, raccolto, spaventato. Ma quando stava per uscire dal cono di luce che ci scaldava le facce si fermò e si voltò verso di noi. E sorrise, sorrise quel bastardo, nel silenzio che ci circondava, nel silenzio impossibile da rompere dopo quel canto, sorrise, e tra quei suoi denti marci c’era scritto il trionfo. Avete visto chi vi ho portato per stasera? Questo c’era scritto nel suo sorriso di merda!
E poi anche lui se ne andò, lasciandoci a sprofondare in quel silenzio ormai incolmabile, ancora col riverbero di quella voce nelle orecchie.