Immaginare di immaginare di immaginare

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Immaginare di immaginare di immaginare

Published in: Ideale 4 (Summer 2000). Milano: Proedi Multimedia. 12-14.
Jean de Boneville, nel suo Storie di specchi: dal labirinto al rizoma illumina i lettori sul progetto per un labirinto di luce che Leonardo non riuscì mai a realizzare: la Stanza Ottagonale con pareti a specchio. Pare che mentre Leonardo indagava sulla natura delle immagini speculari, riprendendo il cerchio semicircolare di Tolomeo, disegnò un intreccio di riflessi e un labirinto: otto enormi specchi rettangolari uniti assieme a comporre un mondo senza confini. Incapace di costruirsi da sé lastre riflettenti grandi abbastanza da soddisfare le sue esigenze abbandonò l’idea. Però scrisse: «Quel omo che si troverà [al suo interno] potrassi vedere per ogni verso infinite volte e con infinita bellezza. Perché non vede la immaginazione più grande eccellenza qual vede l’occhio riflesso.»
A quel Leonardo manipolatore di luce, che nell’immagine dell’occhio riflesso scopre l’immaginazione, vorrei sottrarre la forza dello sguardo verso il futuro. Vorrei immaginarlo come cercatore dell’infinito dentro al finito. Mi piacerebbe riprendere quell’ideale marchingegno leonardesco per la generazione di labirinti e lì trovarvi l’ispirazione per sognare una visione: un frammento d’immaginazione per il terzo millennio. Vorrei generare per il lettore uno spazio per un’immaginazione che non rifugga la sfida della tecnologia, ma che piuttosto l’accarezzi; un’immaginazione che nasca calda dentro alla tecnologia e da lì fiorisca e si moltiplichi. Come un riflesso nella stanza di specchi.
Tentiamo un esperimento di immaginazione: guardiamo, dall’alto, all’ottagono di specchi di Leonardo. Al centro della stanza osserviamo un tavolo circolare, una sedia e tracce vistose di tecnologia: otto elaboratori a computazione parallela connessi l’un l’altro. In semicerchio attorno al tavolo ampi monitor al plasma su piedistalli di metallo. Otto. Infine un uomo seduto, collegato ai computer tramite interfacce a immersione.
L’uomo è Mangiafuoco, burattinaio di avatar. Nella religione Hindu, l’Avatar è l’incarnazione del Dio: la manifestazione di un’idea o di una realtà superiore. Per parallelo imperfetto, nei mondi digitali gli avatar indicano le manifestazioni più terrene di un creatore umano, le incarnazioni di un essere corporeo dentro a un mondo di informazioni. Nel nostro caso l’uomo si è multicopiato negli otto elaboratori a computazione parallela, incarnandosi in otto avatar distinti. Ogni avatar costituisce una variante semplificata della personalità del suo dio-creatore. Dopo la creazione, il dio ha scelto di manifestare i suoi otto avatar in un identico mondo virtuale. Chiamiamolo Aleph. L’uomo ha digitalizzato la sua immagine in 3D, e poi ha nutrito i computer con quell’immagine, così che ora sofisticati software di grafica la riproducono, perfetta, negli avatar. Altri software euristici guidano gli avatar nello spazio del mondo simulato in azioni semi-indipendenti: mimano nei dettagli le espressioni facciali, i gesti e la postura, il linguaggio non-verbale, le configurazioni prossemiche del creatore.
I computer eseguono il loro lavoro con perfezione. La potenza di calcolo è enorme; la risoluzione grafica di Aleph e degli avatar in Aleph è altissima, ed è impossibile distinguere l’aspetto degli avatar dell’uomo, vivi in Aleph, da una delle immagini dell’uomo riflesse negli specchi della stanza di Leonardo nella quale l’uomo conduce il suo esperimento.
L’uomo ha organizzato un incontro tra i suoi burattini in un sotto-spazio di Aleph che è una copia della stanza degli specchi di Leonardo, e ora, mentre l’osserviamo, sta inviando comandi agli avatar attraverso le interfacce a immersione. Ogni avatar nella stanza degli specchi su Aleph vede gli altri avatar attorno, e vede molteplicità di copie di sé riflesse negli specchi della stanza virtuale, e vede molteplicità di copie degli altri avatar riflesse negli specchi della stanza virtuale. Avatar e riflessi di avatar riproducono, da molteplicità di prospettive, molteplicità di varianti del comportamento dell’uomo-dio. Ciascun monitor nella stanza degli specchi dove siede l’uomo ai computer che controlla l’incontro degli avatar nella stanza degli specchi in Aleph riporta l’incontro con gli occhi di uno degli avatar. Ogni monitor produce molteplicità di copie di se stesso nelle pareti a specchio della stanza di Leonardo e quindi molteplicità di varianti di avatar e riflessi di avatar generati nella stanza degli specchi di Leonardo simulata in Aleph.
Si è detto che gli avatar vedono. In realtà è ovvia la distanza tra il loro concetto di vedere e il nostro. Gli avatar sono soltanto marionette, scimmie impegnate nel simulare semplici varianti visibili del comportamento complesso del loro dio. Per loro vedere è soltanto riprodurre. Così tale incontro di avatar possiamo pensarlo come un tentativo maldestro dell’uomo di rappresentare frammenti di vita su un palcoscenico virtuale. Ma per l’uomo ciò è già sufficiente. E anche per noi.
Guardando meglio l’uomo condurre l’esperimento ci accorgiamo che è perplesso. Sta riflettendo sul problema insolubile dell’enumerazione, sia pure parziale, di un insieme infinito. Sta pensando: le copie sono riflessi lievissimi della mia complessità. Sono scatole nere. Dietro di loro, tra le pieghe del software che li anima, c’è ben poco, forse nulla, di umano. Nessuna di esse supererebbe il Test di Turing. Ma se solo una di queste copie, solo per un istante, per accidente, per fluttuazione probabilistica, per errore di software, fosse capace di trascendere i limiti della sua stupidità imposta dai processori che la inventano? Se una sola scintilla d’immaginazione digitale fiorisse dagli occhi di una di quelle mie copie? Una, una sola, per un istante. Allora quella scintilla infinitesima moltiplicata infinite volte nel labirinto di riflessi digitali dilagherebbe infinita in tutti i riflessi, su, fino al mio mondo di carne.
Sorride a questo pensiero. Ne coglie a un tempo la potenzialità e l’impossibilità. Poi, incapace di tenere a freno la molteplicità di movimenti che saturano il suo spazio visivo, distoglie gli occhi dagli schermi. Ma non serve; può cogliere soltanto altre molteplicità di sue copie riflesse che lo scrutano. Allora scioglie gli occhi nel vuoto, sfocando lo sguardo tra molteplicità di riflessi, sperando in una redenzione dalla moltiplicazione.
È così che lo lasciamo: seduto mentre ci regala questa speranza per l’avvento di un’immaginazione che nell’era tecnologica scaturisca dalla complessità quasi per accidente probabilistico, o magari per alchimia elettronica, e trabocchi nel suo mondo e ancora più su fin dentro al nostro mondo.
Forti della nostra posizione di osservatori, zoommando indietro e dall’alto, usciamo con gli occhi dallo schermo che racchiude la stanza di Leonardo e l’uomo, nostro alter-ego e avatar, e i suoi riflessi, e i riflessi dei suoi avatar nei monitor, e gli avatar nella stanza di Leonardo in Aleph, e i riflessi degli avatar negli specchi della stanza di Leonardo in Aleph. Allontanando ancora il nostro sguardo i riflessi di riflessi di riflessi perdono definizione. Si intrecciano fittamente fin quando nello schermo si disintegrano assumendo l’aspetto di pulviscolo, di vibrazioni elettroniche: brusio di rumore di fondo.
È a questo punto che fermiamo il moto di allontanamento. È a questo punto che sul vetro del monitor, attraverso il pulviscolo di microriflessi intrecciati, cogliamo il riflesso dei nostri occhi. Dentro vi leggiamo scandita la stessa perplessità letta negli occhi del nostro avatar: questo nostro avatar di certo non supererebbe il Test di Turing ¾ ci raccontano i nostri occhi. ¾ Ma se solo per un instante un barlume della sua creatività si riflettesse dentro a uno di quei riflessi, allora forse ci sarebbe lo spazio per l’avvento di un’immaginazione che scaturisca dalla complessità quasi per accidente probabilistico, o magari per alchimia elettronica, e trabocchi nel suo mondo e ancora più su fin dentro al nostro mondo…
Formulato il pensiero, un altro pensiero ci scaturisce improvviso: la ricorsività del processo che ci ha portato a formulare il pensiero sull’immaginazione nell’era digitale e a pensarlo scaturire da pensieri di riflessi di riflessi di riflessi. È a questo punto che da noi scaturisce il pensiero di essere pensieri di altri. È a questo punto, mentre pensiamo a immaginazioni di immaginazioni di immaginazioni, che ci sentiamo addosso la sensazione di altri occhi su di noi, da dietro e dall’alto. Mentre ci osservano.
Allora non ci è difficile immaginare molti altri livelli, molte altre immaginazioni…