Esperimenti d’amore in una sera di luglio

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Esperimenti d'amore in una sera di luglio

Published in: Writers Magazine Italia 8, MI: Delos Books. 26-29.
Quella sera di luglio faceva caldo, e io non avevo sonno. E si palpava l’umidità nell'aria. Intensa. Molto. Era una di quelle sere perfette e dolci in cui si preferisce star fuori, con la frescura che precede la notte, e il profumo dell'erba, e star soli è un peccato, veramente, una colpa.
E infatti in quella sera di luglio non ero solo: passeggiavo con Sonia, in giro nel parco che circonda la clinica. Era abbastanza presto. Camminavamo con lentezza, senza una meta, per il solo piacere di far passare il tempo, in attesa del momento in cui Sonia, eccitata, stanca, svogliata, insonnolita, questo non potevo saperlo, avrebbe deciso che era giunta l'ora per riaccompagnarla in camera. Attorno, i grilli erano tanti, e chiassosi. Ero irrequieto, io, carico di aspettative. Avrei voluto dare una buona occhiata ai pensieri di Sonia. Cosa le passava in testa?

Sonia. Sonia era una nostra paziente: gigantessa, ventisette anni, occhi profondi, chiari e verdi, labbra di fuoco. I capelli biondi se li era lasciati crescere lunghi, lunghissimi, di certo per nascondere immensità di spalle; comunque, non c’erano capelli lunghi abbastanza da coprirla per intero. Sonia si trascinava dentro a un corpo costruito per contenere altre Sonie in formato normale. Due, tre forse. Però il suo viso conservava una dolcezza rara. Luminosissimo. In lei scoprivo le tracce di una bambina incartata dentro a troppi chili di carne. E il suo sorriso risplendeva, i denti come pietre lucide scolpite in bocca. Magra, sarebbe stata bella.
Quella sera di luglio le tenni compagnia, come faccio anche con gli altri a volte, quando ho il turno di sorveglianza di notte, quando la malinconia mi prende, così che provo a scacciarla cercando un contatto con i pazienti della clinica. Li assisto, li aiuto se hanno bisogno. Parlo con loro, o li accompagno a dormire strappandoli da un sonno scomodo nel salottino con la tv.
Intendiamoci, non mi piace fraternizzare troppo con i pazienti, anche con quelli più tranquilli, quelli che sembrano normali. Ė raro che ci siano parole vere tra noi; ci scambio un saluto con loro, un sorriso, o quattro chiacchiere sul nulla. Nient'altro. E quasi mai mi spingo così lontano al punto di toccarli. Mi fanno paura. Mi spaventa la loro distanza dal mio mondo. Siamo compressi dentro a questa clinica, vicini l'uno all'altro, ma incapaci di accostarci. Parliamo, pure non ci comprendiamo. Non li capisco quasi mai. E immagino che anche loro non capiscano me.
Quindi non li tocco. Neanche le pazienti. Il più delle volte almeno. E comunque, di frequentare le giovani signore che restano da noi per qualche tempo non ne ho mai fatto un’abitudine. Certo, capita che, se una mi piace, provo tecniche di seduzione: ci parlo, molto, la sfioro con gli occhi prima ancora di farlo con le mani, la seguo nel parco, la confondo con parole, parole. Ma succede di rado che la cosa funzioni, e anche quando una di loro mi accetta, alla fine il nostro incontro è solo un scambio di carni: la sua, la mia. Da quegli scambi non ho mai imparato molto. Semmai, dal contatto con quei corpi ho appreso meglio la distanza. Ho scoperto che col corpo si possono realizzare costruzioni e innesti di carne di cui la mente si accorge appena.
Con Sonia però è stato diverso. Con lei è stato lo sbocciare di qualcosa di molto simile all’amore, con il sapore che è lo stesso dell’amore. Ė stata tre mesi da noi in clinica. Non molto. Ma in quel tempo breve è riuscita a scatenarmi contro un grumo di forze che poi mi si sono avviluppate addosso, alla base dello stomaco: sto parlando di leggerezza, di ansia, di pesantezza, capite? L’ardore, il bruciare di un desiderio, la necessità di azione irrazionale. Un fuoco.
Una specie d’amore.
Oltre al suo corpo smisurato nel quale sprofondare, mi incantava la sua passione per le parole, le parole, e per la poesia. La sua voce era nera come una notte senza luna. Certe sere mi regalava poesie dentro a sculture di carne. Le recitava con la bocca e col corpo. Apposta per me. E il vigore magnetico di quella sua voce costruiva ponti sulla distanza tra i nostri corpi.
Non la toccavo subito. Spesso, prima, mi piaceva farmi regalare parole, parole. Mi raccontava le sue storie di sesso e d’amore, le storie della sua carne che regalava con gioia. L’ascoltavo accoccolato nel suo letto. Nudo. Una storia me la raccontò più volte. Amava ripeterla. Una passione: lei diciassettenne e lui con il doppio dei suoi anni. Si erano incontrati una sera d’estate, su una spiaggia. Lui le aveva strusciato le dita sul viso e poi più in basso. Subito. Con gesti rapidi, quasi senza parole. Quella sera in spiaggia non c’era stata nessuna necessità di spiegarsi.
Poi continuava a raccontare, Sonia, ma non mi parlava di sesso. Mai.
L’uomo voleva la sua carne, ma non soltanto quella. Di Sonia cercava un altro corpo. Più intimo e nascosto. Era a caccia di un organismo da riprendere in mille scatti. La fotografava molto. Scattava, scattava, esplorandola da vicino con l’occhio della macchina fotografica. Poi sviluppava le foto: cento, duecento, molte.
Quelle foto, quei frammenti di Sonia, l’uomo le appiccicava al muro l’una vicina all’altra, per ricomporre a parete l’immagine di una gigantesca figura improbabile. Studiava le foto come fossero i tasselli di un puzzle complesso; poi le spostava, modificandone la sequenza e l’ordine. Le spostava. In alto. In basso. Più a destra.
Per giorni. Era così che costruiva molteplici varianti della sua donna gigante. Forse era quello il suo modo per dirle che la desiderava. Così le faceva capire che attraverso l’obiettivo, componendola sul muro, la voleva come preda, certo, ma per conoscerla meglio, e conservarla.
Anche questo, forse, è un modo per parlare d’amore.

Io riuscivo bene a immaginare quei cento frammenti del corpo di Sonia assemblati su una parete domestica, e mi domandavo anche come poteva essere finita quella storia. Ma non ho mai avuto la possibilità di saperlo. Sempre, a quel punto, Sonia interrompeva il racconto, poi piegava la testa di lato, appoggiandola sul collo. Mi fissava. E in quello sguardo i pensieri legati al suo fotografo scomparso svanivano presto.
Aspettavo con eccitazione contenuta questo suo segno consueto, quel movimento della testa. Era un segnale, un dire: stai zitto, non parlare. E anche un dire: ecco, cominciamo, sei pronto?
Certo che ero pronto, conoscevo bene la mia parte in questa rappresentazione, e così mi aprivo anch’io in un sorriso, la cercavo negli occhi. Dopo iniziava a spogliarsi, finalmente.
Ma non sempre. A volte le piaceva rallentare ancora il ritmo. Frenava i suoi gesti per prolungare il gioco delle parole, allontanando di un po' i momenti in cui il desiderio avrebbe preso il sopravvento. Ancora vestita, ma già in procinto di non esserlo, mi lanciava i versi leggeri di Emily Dickinson, che amava e recitava a memoria in un inglese stentato e troppo riempito di vocali, ma lieve anche, e irresistibile: «She dealt her pretty words like blades. How glittering they shone. An every one unbared a nerve. Or wantoned with a bone. She never deemed, she hurt. That is not steel’s affair. A vulgar grimace in the flesh. How ill the creatures bear. To ache is human, not polite. The film upon the eye mortality’s old custom, just locking up, to die.»
Ascoltarla era un piacere che poi non ho più provato. Intrecciava i versi di un poeta a quelli di altri, e scandiva le parole puntandomi un dito addosso, e ridendo, spalancando la bocca, perché sapeva che mi scioglievo alla vista dei suoi denti. Bianchi. Infatti, il desiderio mi apriva.
Se non ricordava a memoria, leggeva da un libretto che sottraeva al comodino: «Se solo potessimo rimpicciolire i corpi alla misura di teschi» mi recitava, «potremmo far tutta una pianura bianca di teschi al chiaro di luna! Se solo potessimo rimpicciolire i corpi» continuava, «forse potremmo far stare tutti gli uccisi di un anno davanti a noi sulla scrivania! Se solo potessimo rimpicciolire i corpi, potremmo farne montare uno su un anello, come ricordo, per sempre.»
Cominciavo a toccarla. Le baciavo i seni, affondavo le mani dentro le sue carni mentre lei continuava con le poesie: «Je suis un gardien de troupeaux. Le troupeau c'est mes pensées. Et mes pensées sont tous des sensations. Je pense avec les yeux et avec les oreilles et avec les mains et avec les pieds et avec le nez et avec la bouche. Penser une fleur c'est la regarder et la sentir et manger un fruit c'est en connaître le sens...»
La lingua la faceva rotolare oltre i denti. E mentre infilavo le dita in lei, lei, con le dita, si esplorava la vastità di pelle che la ricopriva: le guance, le spalle, i seni. I capezzoli grandi e duri come rose di roccia; i rotoli di carne di pancia, l’architettura complessa del pube, le cosce come tronchi flessibili, e i polpacci.
L’occhio mi tornava spesso sui misteri del suo ventre vasto come un golfo, una pianura americana. Le cosce scorrevano tra le mie dita: grandi, solide, violabili. Più in alto era umida, pronta. Mi risucchiava dentro a infinite pieghe e incavi sudati e canyon di carne. Mi leccava, mi annusava, mi bagnava di saliva.
Pensavo sempre al suo corpo come a una casa da abitare, piena di stanze da esplorare, farcita di nicchie e anfratti e rotondità. Stanze di carne.

Ė per questo che quella sera di luglio l’accompagnai in camera. Volevo visitarla ancora nella sua casa di carne e parole. Non conoscevo le sue intenzioni per quella sera di luglio. Non mi parlò. Non le parlai. Camminavamo con lentezza su quel prato che la notte rendeva più grande. A un tratto si fermò e si girò verso di me. Ė in quel momento, guardandola bene negli occhi, che compresi che non ci sarebbero state poesie. Poi continuammo a camminare percorrendo una sorta di cerchio invisibile sul prato, fin quando ritornammo all'ingresso della clinica, e poi su, una rampa di scale, e infine la sua stanza. Ero ancora sulla porta quando mi tirò dentro con prontezza disperata. La luce era poca, solo la lampada sul comodino: gialla e tenue.
Mi aveva abituato a spogliarla con lentezza, tra le parole. Invece quella sera di luglio mi prese subito. Senza grazia, senza preliminari. Era nuda prima ancora che io entrassi nel suo letto. Spense la luce non appena anch’io fui tra le lenzuola.
Non la vedevo. La toccai. Era molta ed era calda, e l’odore del suo corpo innegabile.
Quella volta più che mai, stringendo la sua pelle tra le dita, la percepii come incartata, come fosse un grasso regalo impacchettato che mi si offriva. Scartarla, quello era il mio compito.
Lo feci. Pasteggiai con lei, molto e a lungo. Anche lei si prese la sua parte di piacere, ma tanta era la forza che metteva nello stringermi contro il suo corpo umido, che a un certo punto mi spaventai. Intrecciato tra strati di pelle frusciante, sudato, mentre l’orgasmo già mi cercava, mi percepii avvinghiato in un abbraccio innaturale. Immaginai di essere preso da una macchina molle di carne non umana. Mi trovai precipitato dentro uno dei sogni che infestavano la mia adolescenza, quando temevo che esplorando l'apertura tra le cosce di una donna avrei raggiunto con le dita un altro corpo sotterraneo e alieno, vivo dentro all’involucro visibile di donna.
Il pensiero mi riempì. Il pensiero mi terrorizzò. Ma era troppo tardi per trattenermi. Così, incapace di frenarmi colpii quel corpo che mi stringeva come potevo: inondandolo, senza più capire chi o cosa stavo colpendo.
Sentii quel corpo mugolare mentre mi incrociava di più le braccia sulla schiena, in alto tra le spalle, e le gambe me le intrecciava addosso, strette tra le anche, e tirava, tirava.
Ero preso in quella morsa implacabile. Dita mi frugavano la schiena, unghie mi scavavano le spalle. Ero avvinghiato sempre più. La carne di quel corpo bagnato si spalancava per inghiottirmi e nascondermi.
Percepii contro il collo il contatto di labbra aperte, poi l'umido di saliva che mi si spalmava sulla pelle. Denti mi esplorarono il collo, e provai il dolore del morso. Gambe e braccia continuavano a trattenermi e tirarmi. La testa mi affondava in matasse di capelli. L’odore di quei capelli era indefinibile: come il pelo bagnato di un cane, forse.
Sentii mormorare questo una volta: «Vieni con me!» ma era poco più di un bisbiglio, e non ero sicuro di aver capito bene. Ma lo sentii di nuovo: «Vieni con me!»
Ebbi la certezza di essere prigioniero.
Allora afferrai con entrambe le mani quella faccia che mi stava addosso nel buio e la spinsi via. Con i pollici raggiunsi gli occhi molli e feci pressione. Spinsi con forza.
Funzionò. Sentii un borbottio che assomigliava a un lamento. Poteva essere di piacere interrotto, o di dolore. Non me ne curai.
Funzionò. Presto le braccia e le gambe che mi serravano allentarono la presa.
Un silenzio immenso mi circondò.
Sgusciai di lato, poi lontano dal letto. Mentre uscivo, un suono rauco che poteva essere una risata uscì dalla bocca di quel corpo ora immobile tra le lenzuola.

Quella sera di luglio mi spaventai. Fu la fine di un incanto. La distruzione di una specie d'amore. Fuggii dalla stanza semivestito. Scesi una rampa di scale, e presto ero nel parco e sull'erba. Lì c’era un’aria profumata di terra che saliva dall'erba, e io in quell'aria cercai conforto. Cantavano i grilli. Mi inseguiva una sensazione forte, nitida: solo per caso ero uscito vivo da quella stanza.
Poi c'è stata l'azione del tempo. Il tempo cancella ogni spavento, tutte le sensazioni. Restano ricordi che non fanno più paura. Ė passato del tempo da quella sera di luglio. Ora Sonia è lontana, è un corpo assente. Di lei non so più nulla.