Lo sguardo di Moebius

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Lo sguardo di Moebius

Non lo so perché mio fratello ancora non arriva. Sollevo il vetro dell’orologio e tocco le lancette, undici e dieci, già dieci minuti di ritardo, mai una volta che sia puntuale! E questo marciapiede non è proprio il posto ideale per aspettarlo, c’è un traffico indiavolato, rumore, puzza, un sacco di gente che mi passa vicina. Sento anche odore di pane, da qualche parte ci deve essere un forno. Però fa un freddo cane, credo che abbia cominciato a nevicare. E io sono qua ad aspettare come un cretino che lui si degni di...»
Lo sento arrivare. «Ciao fratellino!» mi dice. Mi da una pacca sulla spalla, al suo solito.
Mi giro verso il suono della sua voce. «Era ora! È un sacco che ti aspetto!»
«Ehi, calma, rilassati, solo un minuto di ritardo!»
«Dieci, almeno» gli dico. «Non potevi trovare un altro posto per vederci? E non ti preoccupi neanche di lasciare qua a morire di freddo il tuo fratello più caro?»
«E anche l’unico che ho» dice, e sento che mi sta sorridendo, e allora anche io gli sorrido. È il solito bastardo, ma come farei senza di lui?
«E comunque,» continua «sei in buona compagnia. Il posto che ti ho trovato per incontrarci è perfetto: sei davanti al miglior negozio d’arte della città. Dopo la tua galleria, naturalmente. Da qui Escher ti sorveglia le spalle. Quale luogo più opportuno per soddisfare la tua insaziabile sete di cultura?»
«Se solo riuscissi a vederlo potrei anche ringraziarti» dico.
«E faresti bene, perché dietro di te hai il più bell’esempio del grande anello magico. Escher in azione: il nastro di Moebius e le formiche stupide, che camminano avanti e avanti e non sanno che non arriveranno mai... E ad ogni modo, non ne fare un dramma solo perché non riesci a vederlo. Vuoi dire che non ti ricordi più i disegni del maestro di intrecci metafisici, secondo solo ai grandi poeti ciechi, Omero e Borges?»
«Non ci vedo, mica ho il Parkinson! E me lo ricordo benissimo il disegno dell’anello e delle formiche. Quindi è inutile che continui a sfottermi coi tuoi giochini sui grandi anelli e i grandi ciechi. Escher non lo vedo e non riuscirò a vederlo almeno per un altro po’ di tempo, e in questo momento di Escher non me ne frega niente, visto che è un  secolo che ti aspetto,  e fa freddo,  quindi dacci un taglio, va bene? L’hai portato?»
«Povero Escher! Ti perdono solo perché sei un misero cieco infreddolito. E anche perché hai ragione, fa freddo sul serio. Quindi ok, facciamo in fretta. Certo che ce l’ho, eccolo.»
Mi mette il pacchetto nella mano che gli tendo. Lo infilo subito in tasca.
«Ok, tutto a posto allora. Ti lascio subito, così vai a scaldarti le tristi membra intorpidite dalla lunga attesa. Ci vediamo domani allora. Però se hai bisogno di una mano dimmelo, eh? Ti accompagno? Ti sorreggo? Vuoi che mi sostituisca ai tuoi poveri occhi malati?»
«Me la cavo da solo, grazie. Va’ via prima che ti ci mandi sul serio...»
«Le solite prepotenze delle classi portatrici di handicap» dice. E mi arriva l’immancabile pacca sulla spalla.  «Ti saluto fratellino altrimenti vedente! Omaggi al grande anello e ai tuoi compagni di buio. Gloria ai grandi ciechi e alle formiche stupide!»
«Fanculo!» gli urlo dietro. Ma già se n’è andato. I suoi passi si perdono dentro al frastuono di altri passi, di motori e di clacson, del brusio di fondo di una città che non conosce più il silenzio.
E adesso? Destra? Sinistra? Dove vado? Non è questione di non vedere; in realtà ormai l’abitudine ce l’ho fatta, la mia bella bacchetta bianca da cieco mi aiuta, tac, tac, sul bordo del marciapiede per andare dritto, tac, tac, gli ostacoli li schivo quasi sempre ormai. Il problema è che non so proprio dove andare. Tornare a casa? O una visita alla galleria? E che ci vado a fare in galleria, che tanto gli occhi non li posso adoperare?
Così resto fermo sul marciapiede sotto la neve: praticamente uno stupido congelato. Sento sul collo una fiatata fredda: è lo sguardo delle formiche di Escher. Lo ricordo bene quel quadro: formiche disperate che cercano la fuga da uno spazio circolare infinito. Invano. Un po’ come me che vado avanti, avanti nel tempo con la mia bacchettina in mano, tac, tac, incapace di ammettere a me stesso che questo davanti è sempre uguale: nero, buio, uniforme.
D’improvviso però qualcosa mi distrae. Suoni, urla. La strada: a sinistra, in fondo. Una sirena lontana, poi un’altra, e un’altra ancora. E un po’ più vicina c’è anche un’auto col motore impazzito. Corre verso di noi a una velocità che deve essere spaventosa. Anche se è lontana posso sentirla sfrecciare sull’asfalto bagnato di pioggia e neve, e la sento sbandare, sta per perdere il controllo, ma poi riprende a correre. Anche le auto con le sirene sono sempre più vicine.
L’auto inseguita passa e si allontana. Scorrono le auto della polizia. Poi c’è una sequenza rapida di suoni: uno sparo, uno scoppio, ancora gomme che stridono sull’asfalto, un colpo secco di metallo contro un oggetto duro, un’auto che si schianta con un concerto fragoroso di suoni compressi. Poi silenzio, una frazione di secondo. Ma subito le sirene riprendono, e ci sono molte grida che provengono dalla strada: distinguo la voce lamentosa di un uomo, probabilmente da dentro l’auto fracassata; una donna urla dal marciapiede di fronte. C’è una bambina che piange. Le auto della polizia si fermano quasi contemporaneamente. Devono essere in fila, l’una dietro all’altra. Da quelle auto si spalancano portiere, dietro le portiere escono uomini di corsa, sono certo che i loro passi pesanti lasciano larghe tracce scure sulla neve appena caduta.
Corrono fino a concentrarsi attorno all’auto, credo. Saranno una cinquantina di metri da qui. Poi subito altri spari, due, tre... Urla, suoni di lotta, un vetro rotto, un altro sparo e un altro ancora, quattro, cinque... fin quando un uomo grida «Via! Via!» e c’è un boato, un’esplosione, crepitio di fiamme, deve essere l’auto schiantata che ha preso fuoco. Chissà che ne sarà di quelli che scappavano.
La scena di questo finale col botto è lontana da me, ma la sfera dell’esplosione mi raggiunge ugualmente per regalarmi un abbraccio caldo che dura un momento.
Da quando non posso più contare sui miei occhi ho scoperto che ogni suono ha un colore che riesco a vedere con la mente. Come quando da bambino facevo gli esperimenti premendo le dita contro le palpebre chiuse. I colori spuntavano dal buio; duravano un po’, fin quando diventavano dolore bianco e io smettevo. Adesso, il fruscio morbido della neve che cade è bianco, come quel dolore. Ma gli spari di pistola sono arancioni, lampi rapidissimi che mi stupiscono. Il sibilo dei proiettili è viola, bave sottili sospese in aria che persistono per un tempo lungo. Lo stridio delle ruote è certamente verde, zigzagante e lucido come la pelle di un serpente dopo la muta. Il blu invece è il colore delle sirene, e d’altra parte quale altro colore potrei mai inventarmi per una sirena lampeggiante? Le grida però hanno colori variabili: giallo, soprattutto, ma anche gradazioni di rosso e viola. Sono piccole nuvole rapide che si intrecciano in formazioni tenui e spariscono quando le bocche si chiudono. Inutile dire molto dell’esplosione; l’esplosione è bianca, incandescente, come la neve, come il dolore.
Vorrei avvicinarmi al luogo dell’incidente, e quindi scendo in strada e faccio qualche passo, ma subito qualcuno mi blocca, una voce autoritaria: «Signore, è pericoloso! Non può avvicinarsi!» dice. Deve essere uno della polizia. Poi mi spinge indietro con un gesto cortese. È chiaro che si è accorto dei miei occhiali di cieco e della bacchetta bianca.
Allora resto fermo in mezzo alla strada. L’incidente ha bloccato il traffico e il silenzio ora è sorprendente. Solo da lontano arrivano ancora i suoni concitati di gente attorno all’auto esplosa. Nevica, ed è un piacere sentire i fiocchi cadermi addosso col loro rumore bianco.
E adesso? Dove vado adesso? Destra? Sinistra? Dove vado? Non lo so ancora, ma credo che la vetrina con le formiche di Escher possa ospitarmi ancora per un po’ mentre prendo le mie decisioni.
Così torno verso il marciapiede.
«Hei! Sono qui!» mi urla subito mio fratello. È già arrivato e chissà da quanto mi starà aspettando. Si gira verso di me agitando in aria il suo bastone bianco. Quel maledetto cieco è pericoloso! A momenti prende in testa la ragazza bionda che gli passa vicino. Mi accosto. È buffo che sia proprio lui a chiamare me. Come avrà fatto a sapere che sono qui?
«Sei diventato telepatico?» gli dico quando gli arrivo davanti.
«Lo sai che hai una gamba più corta dell’altra. Quante volte ce lo ha detto tua madre, ricordi? Il suono dei tuoi passi potrei distinguerlo tra mille: lungo, corto, lungo. Frazioni di secondo di differenza. Ma io lo sento. Ho imparato. Sai com’è: ti tolgono un senso e gli altri si adattano..»
«Una madre che per pura combinazione è pure la tua!» gli dico. «Fantastico! Un fratello zoppo e adesso abbiamo anche il terzo occhio del fratello cieco! Che bella riunione di famiglia!» E a questo punto gli assesto una pacca sulla spalla, forte, almeno sa che sono arrivato sul serio, che gli sto davanti.
«E allora...» gli dico «come sta il mio vecchio fratello non vedente?»
«Fanculo! Non vedente ancora per poco. Le bende me le tolgono tra due mesi. E non ci vedo, ma ci sento benissimo. Meglio di prima e meglio di te.»
«E come te la cavi coi quadri? Li senti bene? Di che colore è un quadro tutto nero?»
«Fanculo un’altra volta! Di che quadri stai parlando?»
«Escher il magnifico. Hai presente Escher, il disegnatore di paradossi? Ce lo hai tutto alle spalle. Sei davanti a un negozio d’arte e a una vetrina dedicata al maestro. Le scalinate impossibili, l’acqua dal moto perpetuo, gli amanti inanellati. E, in primo piano, la corsa delle formiche. Enorme. Le formiche disgraziate che girano all’infinito sul nastro di Moebius. Hai presente? È più grande di te. Potrebbero mangiarti in  testa, quelle formiche!»
«Guarda che è inutile che fai il saccente con me. Sarò cieco, ma non ho perso la memoria. Escher te l’ho fatto conoscere io quando tu ancora non capivi le differenze tra un Magritte e un Dalì e, quindi vedi di darci un taglio!»
«Fratellino non ti arrabbiare! Pace, pace! E nevica anche, il mondo è bianco e luminoso anche per te che non lo vedi! Pace fratello!»
«Fanculo!» dice ancora. «Non c’è più rispetto per l’anzianità e la saggezza» dice. E prova a fare la faccia seria, però gli viene anche da ridere mentre parla. Finalmente! È un piacere vederlo così, agguerrito e divertito nonostante la sua discesa nel buio dopo l’incidente.
«È un sacco che sto qui ad aspettarti» dice poi. «Ho i piedi che ormai sono due blocchi di ghiaccio.»
«Allora facciamo subito, così poi porti al caldo i tuoi piedi e il tuo bel culo di non vedente.»
Infatti ci vuole un momento. Tende la mano aperta verso di me. Gli metto il pacchetto in mano e lui subito lo infila in tasca, ed è come se quel pacchetto non ci fosse mai stato.
Ci salutiamo abbracciandoci stretti. «A domani fratellino!» gli dico. Continuo a tenerlo in un abbraccio forte sotto la neve che cade fitta. Poi mi allontano lasciando il marciapiede. C’è gente che passa. Il traffico si impone subito tra noi, clacson, motori e altri rumori di città. Sull’altro lato della strada mi giro indietro verso mio fratello: è ancora fermo sul marciapiede, piantato contro la vetrina. Da qui, la formica di Escher che corre sul lato superiore dell’anello magico sembra appoggiata sulla sua testa. Un guardiano sopra di lui che osserva il mondo al suo posto.
Mi allontano ancora, un centinaio di metri, ma poi rallento e mi fermo, anzi, ci fermiamo tutti, perché c’è del frastuono nuovo che arriva da lontano: prima una sirena, forse quella di un’ambulanza, o della polizia, ma poi se ne sente un’altra, e una terza, ed è chiaro che sono auto della polizia. Anche perché si vedono ormai, tre puntolini lampeggianti in fondo alla strada che si avvicinano a gran velocità. Si capisce che stanno inseguendo un’altra auto davanti, la vediamo filare che pare impazzita, e per un momento sbanda anche e piega verso di noi, e c’è quest’ondata di folla che si agita disordinata per sfuggire all’incontro, ma alla fine l’auto si riprende e prosegue dritta come un razzo.
Dovrei scappare come fanno tutti, ma invece in me l’istinto è diverso. Sfilare la macchina fotografica dalla tasca e prepararmi allo scatto è un solo gesto. Neanche me ne accorgo quasi: sono pronto a inquadrare e scattare. E scatto infatti. Cerco nel mirino l’auto in fuga. Zoom, campo medio: una Lancia rossa, luci accese, il muso quasi in primo piano; poi la strada, e le case sullo sfondo, e persone. C’è una donna con la bocca aperta, lo sguardo spaventato. Più lontane, le auto che inseguono. Scatto ancora. Campo lungo stavolta: le auto della polizia si muovono veloci, lasceranno scie di colore nell’immagine. Sarà il blu a dominare in questa foto. Scatto ancora, tutti campi lunghi; avvicinarsi con lo zoom ormai è impossibile, c’è troppo movimento, troppa rapidità. Scatto: un braccio è fuori da un finestrino dell’auto in corsa, c’è una pistola. Sento uno sparo. Scatto. Cerco di spostarmi, verso il luogo dell’azione, corro sul marciapiede con la macchina in mano. Altro sparo. Scatto.
L’apparecchio fotografico è simile a una pistola; identica la precisione, uguale la voracità. Perciò con lo zoom provo a concentrarmi vorace sul retro dell’auto che scappa. Dopo lo sparo una delle gomme è a terra. Attraverso il mirino vedo l’auto sbandare. Scatto: l’auto è storta rispetto alla strada, punta verso il marciapiede. C’è gente che prova a togliersi dalla traiettoria obliqua dell’auto impazzita. Zoom rapidissimo: il muso dell’auto di tre quarti, e davanti, schiacciato dalla prospettiva, come un bersaglio congelato, c’è un uomo, giovane, ben vestito, lo sguardo atterrito di chi capisce di non avere scampo. Dietro di lui il muro. Immediatamente dopo c’è uno schianto forte. Rumore secco di metallo che si accartoccia, di vetri che si spaccano. Grida. L’uomo ha smesso di essere spaventato. Scatto: ora lui, e l’auto, e il muro sono fusi assieme in una palla di materiali: metallo, carne, cemento.
Scatto. Piano medio. Mi accosto di più al luogo dell’impatto. Scatto: un primo piano della testa dell’uomo, di quel che c’è rimasto. Capelli sporchi di sangue, occhi ancora aperti. Arriva la polizia, una decina di uomini si avvicinano all’auto schiacciata contro il muro, pistole in mano. Scatto. Urlano. Una mano armata spunta dalla parte anteriore dell’auto. Altre urla. C’è uno sparo, poi altri ancora. Tutti gridano, corrono, i poliziotti cercano riparo, io mi abbasso. Un poliziotto si accorge di me, si avvicina e mi spinge via con rudezza, mi grida qualcosa che non capisco e prova a strapparmi la macchina dalle mani. Riesco a tenerla malgrado tutto, riesco persino a scattare ancora, e ancora mentre mi allontano. Vedo poliziotti cauti attorno all’auto. Poi c’è una voce improvvisa che grida «Via! Via!» e a quel punto è la fine del mondo, un boato riempie l’aria, una luce accecante ci avvolge tutti.
Provo a scattare, ma c’è troppa luce, troppo calore. Sarà un’immagina bianca. Il caos ha preso il sopravvento. La gente si muove di riflesso, senza più pensare. Corrono e gridano. È la paura a far andare le gambe. Deve essere così nelle città di guerra: scappare e gridare.
Ho finito la scheda. Non posso più scattare e allora mi lascio alle spalle la zona di guerra. C’è il lampeggiare di un’auto della polizia che raggiunge i palazzi vicini: blu, bianco, blu. Da una finestra del palazzo di fronte una donna si sporge e scruta in basso verso l’esplosione. Nevica più forte ora e i suoni sembrano smorzati. È come se fossero tutti trattenuti dentro a una scatola imbottita col coperchio aperto. Torno indietro e verso il marciapiede. La neve scende così fitta che non è facile distinguere colori e forme.
Quando raggiungo il marciapiede mi fermo. Aspetto. Fa freddo. Aspetto a lungo come un povero cieco che chiede soldi, fin quando i piedi mi diventano cose gelate e morte.
Aspetto. Non lo so perché mio fratello ancora non arriva. Sollevo il vetro dell’orologio e tocco le lancette, undici e dieci, già dieci minuti di ritardo, mai una volta che sia puntuale! E questo marciapiede non è proprio il posto ideale per aspettarlo...